Il lavoro che verrà
di Titti Di Salvo
La pandemia ha accelerato la transizione verso l’uso delle piattaforme digitali, che hanno consentito alle persone, anche nel lockdown, di spezzare solitudini e mantenere relazioni affettive; alla pubblica amministrazione di continuare a erogare servizi; alle imprese di continuare a produrre e ridurre i costi della crisi (nonostante l’analfabetismo digitale e le deboli competenze informatiche dei lavoratori italiani, con l’età media più alta di quella europea); alla scuola di mantenere il rapporto educativo con gli studenti (non con tutti per colpa delle diseguaglianze territoriali e sociali nella connessione).
Il lavoro da remoto ha mostrato in questi mesi vantaggi e limiti. Ne è stata ampiamente indagata la valutazione da parte delle imprese e delle persone. Gli studi dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, in particolare, hanno spiegato le ragioni del suo gradimento prevalente: da parte delle imprese per l’aumento della produttività e la riduzione dei costi; da parte delle persone per ragioni legate all’uso del tempo; da parte della collettività per l’impatto positivo sull’inquinamento e sul traffico. Ma nello stesso tempo ne hanno evidenziato anche le ricadute negative: per esempio da parte delle imprese commerciali e di ristorazione nei centri delle città. Ostacolato per anni – sia dalle imprese, per le modifiche organizzative e di cultura aziendale necessarie, sia dalle organizzazioni sindacali, che nella dimensione collettiva hanno costruito i diritti del lavoro – lo smart working ha conquistato rapidamente il centro della scena. Non si tratta di una novità transitoria, ma di un cambiamento del lavoro, non l’unico: di straordinario impatto sul rapporto tra le persone e il loro impiego e sull’organizzazione sociale complessiva. Con trasformazioni positive che la rivoluzione digitale consente, ma non realizza automaticamente.
Vale dunque la pena di approfondire il senso dello smart working, i singoli aspetti del cambiamento che determina e le condizioni per governarlo e indirizzarlo positivamente con politiche del lavoro e della formazione conseguenti. Il lavoro agile è, o dovrebbe diventare a regime, una articolazione produttiva svolta in autonomia dalle persone, con responsabilità, libertà e fiducia. Non necessariamente da casa. Richiede l’acquisizione di abilità e competenze non solo tecnologiche. Presuppone il cambiamento innanzitutto della cultura d’impresa e della sua organizzazione. Nello smart working cambia la relazione tra impresa, lavoratrice e lavoratore, e cambia il ruolo del management. Quindi cambia la regolazione del lavoro. E per questo cambierà anche la cultura sindacale.
All’osservazione di Norberto Bobbio, secondo cui bisogna sempre precisare cosa si intende per libertà, Trentin rispondeva che essa non può che essere la libertà della persona nel rapporto di lavoro. A chi svolge lavoro agile vanno riconosciuti diritti e doveri, equa retribuzione, libertà sindacali, sicurezza, hardware e connessione adeguata. Diritti appropriati a tutelare e valorizzare nella prestazione di lavoro quella “libertà” di cui parlava un visionario Bruno Trentin all’inizio del 2000, nel passaggio tra il capitalismo del Novecento e le nuove forme della produzione. Perché è la libertà rimasta «minore» nelle culture storiche del movimento operaio. E in questo senso Trentin motivava l’aspirazione dei lavoratori a maggiore autonomia e creatività nel lavoro attraverso l’esercizio del loro diritto alla conoscenza e al sapere. La rivoluzione digitale nel lavoro, di cui lo smart working è solo un aspetto, rende oggi quel traguardo possibile. E insieme necessario per la stessa qualità del processo produttivo. Se il sistema dei diritti del lavoro e la rete di protezione sociale rimanessero uguali nel tempo, il risultato sarebbe l’esclusione da entrambi di molta parte del mondo del lavoro: e in parte così è andata in questi anni di profondi cambiamenti, che sono la realtà nella quale calare un nuovo sistema di diritti per garantire in un tempo nuovo quella libertà, dignità, sicurezza di cui all’articolo 1 della Costituzione. Per farlo due sono le strade, sul piano dei diritti e su quello delle politiche. Sul piano dei diritti serve un nuovo architrave che li sorregga. Se l’articolo 18 lo è stato per lo Statuto dei lavoratori degli anni ‘70, il diritto al digitale e alla formazione permanente lo possono essere per il futuro. In particolare l’istruzione e la formazione permanente possono essere l’architrave del nuovo sistema dei diritti dei cittadini, dei lavoratori e delle lavoratrici. Come diritto costitutivo di cittadinanza e per impedire l’obsolescenza delle proprie competenze davanti ai cambiamenti strutturali dei processi produttivi legati all’innovazione, e per acquisirne di nuove e liberare creatività.
Il diritto al digitale a sua volta è la cura per le nuove diseguaglianze digitali. Se il lavoro di domani non potrà essere ripetitivo e procedurale, come dicono tutte le previsioni dei maggiori istituti internazionali, ma basato sulla creatività, l’intraprendenza, la progettazione e l’adattabilità, a tale previsione non potrà che corrispondere sul piano delle politiche la formazione 4.0: un insieme cioè di misure e scelte, strutturali e finanziate adeguatamente, per accompagnare le persone e le imprese nella transizione verso nuovi modi di guardare al lavoro. E per rinnovare il sistema scolastico.
Sarebbe però un errore grave valutare l’impatto enorme della rivoluzione tecnologica sui processi produttivi e immaginare una formazione rivolta solo ai lavoratori, per esempio agli smart workers. I destinatari dovranno invece essere tutti: dai manager, ai CEO, all’insieme dell’impresa, perché ognuna delle funzioni di impresa dovrà essere coinvolta nel passaggio dalla organizzazione produttiva piramidale a controllo gerarchico a quella per progetti con valutazione dei risultati. L’alto tasso di gradimento da parte di aziende, lavoratori e lavoratrici giustifica le previsioni sullo smart working dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, che dal 2012 ne monitora l’evoluzione. Dopo la pandemia in Italia continueranno a lavorare in smart working più di 5 milioni di persone: molte di più dei 570 mila del 2019.
L’impatto sarà grande anche sulla mobilità delle persone, sull’organizzazione delle città, sul rapporto tra centro e periferia: perfino tra Nord e Sud, campagna e città, piccoli borghi e grandi agglomerati urbani, e quindi sulla qualità ambientale: in sostanza sulla vita delle persone e delle città. Il governo ha annunciato un disegno di legge sull’argomento collegato alla nota di aggiornamento del Def. Aquesto proposito è molto importante fare tesoro dell’esperienza di questi mesi e mantenere le maglie larghe della legge attuale, ancora in vigore ma sospesa dallo stato di emergenza. Ci aiuta nell’analisi la moltiplicazione degli studi sull’argomento: Politecnico di Milano, Università Bocconi, Inapp, rapporto Agi-Censis, inchieste sul campo dei sindacati: fino alla recentissima ricerca di Domenico De Masi effettuata con metodo Delphi 1. Dal punto di vista dei lavoratori il gradimento del lavoro agile è larghissimo: dal 60% testato dal rapporto Agi-Censis all’80% emerso dall’indagine della Uil sulle lavoratrici e sui lavoratori romani. Tante le ragioni. Dalla maggiore sicurezza e dai minori costi legati agli spostamenti, all’accumulo di tempo risparmiato per raggiungere il posto di lavoro. Non è un caso che nella indagine romana questo elemento abbia un peso rilevante. Roma è la città in cui è maggiore il numero di macchine di proprietà, maggiore il tempo di percorrenza per raggiungere il luogo di lavoro, peggiore la qualità del trasporto pubblico. In molti, però, contemporaneamente lamentano la mancanza di socialità.
Le innovazioni possono essere governate o contrastate. Per governarle serve però una visione d’insieme: sul futuro del lavoro e sul futuro del paese La normativa attuale sul lavoro agile (la legge 81 del 2017) prevede in realtà l’alternanza di periodi e giorni di lavoro da remoto e da ufficio: impossibile nel lockdown, ma a regime coerente con la flessibilità dello strumento. La stessa alternanza modificherà l’organizzazione del lavoro e gli spazi nell’impresa. Le aziende più dinamiche stanno già cominciando a ristrutturarsi in questo senso con nuovi spazi collettivi in sostituzione degli uffici individuali: più coerenti con un lavoro di gruppo e per progetti. Molti sottolineano negativamente anche il trasferimento di costi aziendali (connessione e hardware) sui lavoratori, che la contrattazione dovrà affrontare e risolvere. Così come la durata senza limiti dell’orario di lavoro e della connessione (anche se sempre la legge 81 già prevedeva il diritto alla disconnessione, che va poi reso esigibile anche grazie alla contrattazione collettiva).
Testato è stato anche da varie ricerche l’aumento del carico di lavoro: in particolare sulle donne e in particolare nel periodo più acuto della pandemia in cui, a scuole chiuse, hanno sommato il lavoro produttivo, il lavoro di cura e il lavoro educativo. Ciò che ha pesato sono stati i consolidati stereotipi nella divisione dei ruoli, che le politiche pubbliche possono però favorire o ostacolare. Li si ostacola se si evita di collegare lo smart working all’aumento dell’occupazione femminile, come invece viene fatto nel Family act e nella stessa legge 81, che indica solo per le madri il diritto allo smart working nei primi tre anni di vita del bambino, invece che estenderlo anche ai padri. E ancora riconoscendo gli stessi sostegni nella cura previsti nel lavoro non da remoto (bonus baby sitter, congedi, etc.): perché il lavoro agile non è uno strumento di conciliazione dedicato alle donne. A loro volta le donne potrebbero avvantaggiarsi di una modalità di lavoro organizzata sui risultati e non sulla presenza, e la disponibilità agli straordinari: le attuali differenze salariali tra donne e uomini a parità di mansione si spiegano anche così, e potrebbero quindi ridursi.
Positiva è stata fin qui la valutazione delle imprese, che apprezzano l’aumento della produttività dimostrata da molti studi recenti italiani e meno recenti americani. E la riduzione dei costi, legata prevalentemente alla rimodulazione degli spazi. Insomma, per affrontare i tanti nodi emersi nell’esperienza di questi mesi, non serve una nuova legge ma la contrattazione aziendale: che è il luogo più prossimo per individuare le soluzioni migliori per evitare che una modalità di lavoro flessibile sia snaturata da eccessiva regolamentazione, generale ma anche generica.
Alcune organizzazioni di imprese hanno lamentato un calo di consumi legati alla diffusione dello smart working, che il rapporto Agi-Censis ha confermato: non solo “crisi della cotoletta”, ma conseguenza della desertificazione del centro, che nelle grandi città è amplificato dal calo dei flussi turistici. Se governato questo processo in realtà potrebbe avere come effetto centri urbani decongestionati e periferie rigenerate; nuovi spazi di coworking da condividere; città intelligenti e meno inquinate; potenziale riequilibrio delle diseguaglianze come esito della riorganizzazione della città in senso policentrico. Ma ciò che si è osservato è anche una sorta di controesodo tra Nord e Sud, città e borghi, censito anche attraverso le rilevazioni del mercato immobiliare. Secondo il rapporto Svimez, da marzo sono tornati nel Mezzogiorno fino a 100 mila lavoratori. L’80% di loro, secondo la ricerca realizzata dall’associazione “South Working – Lavorare dal Sud”, è tra i 25 e i 40 anni, ha titoli di studio elevati (principalmente in ingegneria, economia e giurisprudenza), e nel 63% dei casi ha un contratto a tempo indeterminato. In sostanza, le innovazioni possono essere governate o contrastate. Per governarle serve però una visione d’insieme: sul futuro del lavoro e sul futuro del paese.