Finisce “quota 100” vantata da Salvini, vediamo cosa vuole fare Draghi
di Titti Di Salvo
Quota 100 ha acquisito ormai il carattere di cartina di tornasole. Vantata da Matteo Salvini come test della qualità dell’azione di governo della Lega. Fino al punto di citarla come test per valutare le proposte del presidente del consiglio incaricato Draghi e di esagerare le cifre del suo utilizzo.
Come ha ricordato la Cgil, le domande di Quota 100 accolte dall’Inps sono ad oggi 267.802. Molto meno delle 400.000 di cui si è vantato qualche giorno fa il leader della Lega. E soprattutto non le 973000 previste quando la norma fu varata. Al contrario altre forze politiche, o singoli esponenti di esse, indicano nella cancellazione di Quota 100, il test del rilancio dell’azione riformista. In un senso o in un altro dunque tutti ne parlano. Di che si parla quando se ne parla?
LA MISURA
Quota 100 è la possibilità prevista in via sperimentale dal 2019 a dicembre 2021 di andare in pensione con 38 anni di contributi e 62 anni di età. Prima di quanto la legge Fornero prevede oggi e ha previsto ieri per chi quei criteri non li raggiunge. Perché “quota 100” non ha mandato in soffitta la legge Fornero, con buona pace di chi, il governo gialloverde, l’aveva rumorosamente sostenuto. La sperimentazione ha confermato l’iniquità di un beneficio destinato paradossalmente alle categorie di lavoratori “più forti” o meno deboli: uomini, del Nord e del pubblico impiego. Cioè destinato a chi, in virtù di carriere continue e stabili, raggiunge a 62 anni di età i 38 anni di contributi.
Ma la domanda è: il sistema previdenziale pubblico attuale, esito di stratificazioni di più interventi – dalla riforma Dini, alla legge Fornero, agli interventi della scorsa legislatura – è sostenibile economicamente e socialmente? Ed è coerente con la realtà della vita delle persone e del mercato del lavoro? E qui sta il punto: solo la risposta a queste domande dà senso alla riapertura del cantiere della Previdenza. Perché non appaia del tutto distonico rispetto alla realtà drammatica dei nostri tempi post Covid, con molti posti di lavoro già persi, molti a rischio, l’approssimarsi della scadenza del blocco dei licenziamenti, interi settori produttivi al collasso. Quali sono dunque le ingiustizie maggiori, incongruenti con la realtà e anche con l’impianto contributivo del sistema che ne dovrebbe garantire la flessibilità? Sono tre, e discendono da tre evidenze.
LE TRE INGIUSTIZIE
In primo luogo non tutti i lavori sono uguali. Sappiamo con certezza che a seconda del tipo di lavoro svolto e del titolo di studio l’aspettativa di vita delle persone, e quindi il numero di anni nei quali si gode la pensione maturata, è molto diversa. Una persona con diploma di scuola media inferiore ha una aspettativa di vita minore di 3,1 anni rispetto ad una laureata. E analoghe evidenze si ritrovano nelle tabelle Ocse. Ma, al contrario, è l’aspettativa di vita “media” il criterio utilizzato oggi per definire accesso e misura della pensione. Nella scorsa legislatura – che sulla correzione della legge Fornero ha impiegato 20 miliardi tra salvataggio degli esodati, opzione donna, ricongiunzioni, allargamento della platea dei pensionati fragili destinatari della quattordicesima, Ape social e volontaria – aveva avviato una riflessione in questo senso con l’individuazione, timida, di 15 attività gravose, meritevoli di uscite anticipate verso la pensione. Riflessione incompleta, che sarebbe dovuta proseguire con il lavoro di una apposita Commissione, istituita alla fine della scorsa legislatura e soppressa all’inizio della successiva. Qualche giorno fa, dopo 3 anni e a crisi di governo ormai aperta, pareva che la Commissione ripristinata potesse iniziare suoi lavori. A tempo scaduto. Ma sarebbe questa la vera riforma di sistema. Necessaria, equa, possibile.
L’ETÀ
In secondo luogo la realtà ci dice che l’età di accesso alla pensione e la misura della pensione sono diverse tra donne e uomini. Le ragioni sono tante, ma tutte legate a discriminazioni e stereotipi di genere. Dalla segregazione professionale in settori produttivi con basse retribuzioni, al carico esclusivo sulle donne del lavoro di cura che le costringe a abbandonare il lavoro, a scegliere il part-time, a utilizzare aspettative non retribuite. Non a caso la durata media della vita lavorativa degli uomini è di 39 anni, di 25 anni quella delle donne. Un paese moderno e migliore, per essere tale deve superare discriminazioni e stereotipi di genere, a proposito della visione che dovrebbe ispirare il Recovery Plan. Ma intanto è bene riconoscere previdenzialmente, con contributi figurativi, il lavoro di cura a chi lo svolge e anche il lavoro familiare non retribuito. Per il 74 per cento, dice l’Ocse, a carico delle donne.
In terzo luogo i giovani di oggi, per la precarietà del lavoro e la struttura del mercato del lavoro, senza interventi su questo, sulla formazione permanente e sul welfare, sono condannati ad essere i futuri pensionati poveri. Il che li renderà sempre meno disponibili a versare i contributi per finanziare un sistema pubblico con loro molto avaro.
Non potrà che essere questo il centro del cantiere della Previdenza che il nuovo governo riaprirà con le parti sociali, alla vigilia della fine della sperimentazione di “Quota 100”. Per dargli un senso. Per dare più senso alle riforme del Recovery Plan. Per rimettersi in sintonia con la realtà.