Una donna segretaria del Pd
di Titti Di Salvo
Ma quale dovrebbe essere la funzione del Pd?
Quando è nato nel 2007 i fondatori e le fondatrici del Pd lo definirono l’incontro delle migliori culture riformiste necessario per interpretare e attraversare il cambiamento, la modernità. Con l’obiettivo di disegnare un paese migliore. Un partito nazionale saldamente europeo, ispirato dalla ambizione di rappresentare tutto il paese e per questo caratterizzato dalle primarie nella scelta della laedership. In questo senso un partito a vocazione maggioritaria.
Un Pd così non è mai nato. Il partito democratico ha interpretato in questi anni con grande generosità e senso dello stato la funzione di infrastruttura democratica e argine a sovranismi e rigurgiti conservatori: dal disegno di legge Pillon ai porti chiusi. Ma non è mai nato il Partito Democratico immaginato in origine.
Per due ragioni: l’incontro tra le diverse culture non ha prodotto sintesi ma a seconda della laedership, definita dalle primarie, la prevalenza di una cultura sull’altra. Cosa diversa dal rapporto tra maggioranza e minoranza registrate su piattaforme politico programmatiche sul come realizzare gli obiettivi, non certo sulle ragioni di fondo, sul sistema di valori. Che non può cambiare a seconda della maggioranza, o a seconda dell’essere al governo o all’opposizione.
Le diverse scissioni sono state una delle spie di questa incapacità.
La stessa cosa è avvenuta nella selezione delle classi dirigenti, più in continuità con il passato che espressione di una nuova cultura democratica e rigorosamente senza investimenti sulle leadership femminili.
Un esempio dell’una e dell’altra ragione.
A seconda della maggioranza congressuale è cambiata in questi anni l’analisi sui cambiamenti sociali e del lavoro. Dal “viva il job act” a “abbasso il job act”. Di analisi vere, solidali – cioè guidate dal comune interesse a misurarsi con la ricerca delle risposte adeguate ai cambiamenti del lavoro, con la necessità di rappresentanza politica del lavoro, diversa e distinta da quella sociale – io ne ho viste poche. Ho visto molta astiosa polemica politica e scambi di accuse tra chi è accusato di aver liquidato una storia politica e chi è accusato di essere incapace di modernità.
Oggi siamo di nuovo in una fase di accelerazione straordinaria di cambiamento. Il Pd ha bisogno di una sua autonoma lettura dei processi. Così può interpretare il sostegno leale all’agenda Draghi, cioè alla possibilità in virtù delle risorse del Recovery di affrontare i nodi strutturali del Paese. Perché le ricette possono essere diverse, ma i nodi quelli sono: dalla riforma della giustizia a quella della pubblica amministrazione, all’investimento nelle infrastrutture sociali cioè alla riforma in senso universale del Welfare.
Analogamente nel Pd non è mai decollata la costruzione di una classe dirigente femminile. Tanta condiscendenza ha accompagnato in questi anni tutte le discussioni sulle priorità politiche indicate dalle rivoluzione della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. E neppure tra le donne è decollata una discussione solidale sul pluralismo tra culture e femminismi diversi. E spesso sono stati branditi le une contro le altre i simboli delle diverse stagioni: il dipartimento mamma della segreteria Renzi per esempio.
La domanda oggi è: l’Italia post pandemia ha bisogno del Partito Democratico? Cioè di un partito nazionale progressista in cui si incontrano le migliori culture riformiste pienamente in grado per questo di interpretare il cambiamento e di governarlo in modo che ad esso corrisponda un paese migliore?
Io penso di sì. Penso che il Pd sia indispensabile. Soprattutto che il Pd non sia una bad company irriformabile. Che siano irricevibili le sentenze che trasudano grillismo della prima ora delle Sardine. Che sarebbe sbagliato tornare indietro ai Ds e alla Margherita e alle loro collocazioni politiche di sinistra e centro. Ma se è così la costruzione del Pd in questo tempo sociale e politico stravolto dalla pandemia e’ l’impegno del futuro, è la nostra responsabilità. È propedeutica e precedente alla definizione delle alleanze strutturali. E richiede il congresso quando la pandemia lo consentirà.
Le dimissioni di Zingaretti sono state traumatiche. Lo sono state le modalità in cui sono avvenute e le motivazioni indicate. Non credo sia stata l’esito di una crisi di nervi. Immagino l’esito di una riflessione meditata.
Non sono convinta che fosse l’unico modo per metter di fronte il Pd ai suoi limiti. Quei limiti che l’accompagnano dalla sua nascita.
Ma ora in ogni caso spetterà all’assemblea nazionale decidere.
Se decidesse di eleggere una segretaria donna già farebbe un passo avanti: perché sarebbe l’annuncio al paese dell’inizio del cambiamento.