Smartworking, è ora di uscire dall’emergenza
di Titti Di Salvo
Da un anno conviviamo con la pandemia. Molte delle cose che oggi ci sovrastano a poco a poco scompariranno. Altre rimarranno, e sarà un bene. Rimarrà la consapevolezza della fragilità di ciò che pensavamo essere «magnifiche sorti progressive». Rimarrà il cambiamento determinato dalla possibilità di lavorare da remoto che la pandemia ha enfatizzato, lo smartworking, e il suo impatto, grande, sulla vita delle persone, delle imprese e delle città.
Il carattere del cambiamento dipenderà dalle qualità delle scelte con cui sarà accompagnato e orientato quell’impatto: nel lavoro, nell’organizzazione delle imprese, nello sviluppo urbano. Per questo è molto importante ripristinare presto la legge che lo regolamenta e che nello stato d’emergenza è stata sospesa e sostituita, almeno nel pubblico impiego, da alcune linee guide.
Eppure che non si tratti di un cambiamento transitorio è certo. Cristine Lagarde stima nel 20 per cento le attività lavorative che continueranno a essere svolte da remoto post pandemia in Europa. Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano continuerà a riguardare almeno un terzo dei lavoratori dipendenti in Italia. Unindustria di Roma stima che il 40 per cento delle attività lavorative della Capitale sarà svolta da remoto dopo la pandemia.
Lo smartworking è regolato da una legge emanata nel 2017. Tutto sommato in ritardo rispetto alla sua evoluzione. Un ritardo che si spiega per il clima di sospetto da parte delle organizzazioni sindacali maturato con l’esperienza del telelavoro e della traduzione in Italia dell’accordo europeo sull’argomento. Nonostante lo smartworking sottintenda al contrario una organizzazione del lavoro basato sul raggiungimento dei risultati piuttosto che sul controllo gerarchico.
D’altra parte nella cultura del lavoro la dimensione collettiva è stata quella dei diritti e della dignità. In particolare per le donne il lavoro ha rappresentato non solo l’emancipazione ma anche la conquista dell’autonomia e libertà. Fuori casa. Questo insieme di preoccupazioni, la diffidenza da parte delle imprese per la rivoluzione organizzativa necessaria a realizzare il lavoro agile e l’analfabetismo digitale diffuso, hanno rallentato per molti anni la contrattazione di regole e diritti del lavoro da remoto. Che oggi invece dopo l’accelerazione dovuta al Covid-19 sta decollando molto rapidamente.
E ha bisogno di una legislazione di sostegno della contrattazione collettiva nazionale e aziendale. Una legislazione cornice, non rigidamente prescrittiva o sostitutiva degli accordi sindacali. La legge del 2017 è una buona legge. Contiene una griglia dei diritti fondamentali da garantire a chi svolge il lavoro agile. Precisa che non c’è coincidenza tra lavoro agile e homeworking. Definisce il diritto alla disconnessione, il diritto alla sicurezza, alla formazione permanente. L’equiparazione di diritti e retribuzione per i lavoratori e le lavoratrici, che se fosse stata vigente, non sarebbe potuto succedere che il bonus baby sitter venisse loro negato com’è avvenuto recentemente con il decreto sostegni.
Cambierei il diritto, previsto dall’articolo 18 della legge, di ottenere lo smartworking dopo tre anni dalla nascita di un bambino . Previsto solo per la madre, anziché come sarebbe giusto per uno dei due genitori. Così come nel Family act bisognerà cambiare il riferimento allo smartworking come strumento per aumentare l’occupazione femminile. Come se la conciliazione vita-lavoro fosse un problema delle donne.
Ripristinare la legge sarebbe dunque la scelta migliore per guardare avanti oltre l’emergenza, sostenere la contrattazione collettiva necessaria per definire meglio diritti e doveri e la riorganizzazione delle imprese. E fare i conti con un cambiamento epocale.